Pedagogia e orizzonte post-umanista, l’alba di un nuovo paradigma pt.1 ðŸŒ…

Questa volta, un nuovo giorno per i miei svarioni nasce con Pedagogia e orizzonte post-umanista, titolo di un volume scritto nel 2014 dal professor Alessandro Ferrante, in cui ne vengono discussi i recenti sviluppi. Ho intrapreso la lettura per approfondire una corrente di pensiero, studiata in vista di un esame di pedagogia all’università, alla quale sono particolarmente interessato.

Si tratta di guardare la scienza, la filosofia e l’arte di educare, come è stata definita la disciplina pedagogica, con una nuova ottica, già delineata approssimativamente dalla professoressa durante il corso del primo anno. Che poi le sue parole al riguardo fossero: “Se mai tutto ciò venisse in futuro applicato, voglio essere già tre metri sottoterra.” è un altro discorso…  Evidentemente lei aveva maturato le proprie idee quando la crisi della pedagogia novecentesca non era ancora arrivata a partorire un nuovo paradigma.

Il libro incomincia spiegando, appunto, come ogni aspetto di tale materia sia stato messo in discussione durante il secolo scorso. A subire un colpo particolarmente duro è stato il primato dell’anthropos, ovvero la concezione secondo cui essa riguardi strettamente la persona.

Si iniziò a notare il fatto che l’educazione non consista solo un rapporto interpersonale, ma sia caratterizzata da un ambiente tecnico-scientifico e socioculturale esteso oltre l’antroposfera (complesso della popolazione umana sulla Terra). La tecnologia ne incominciava a costituiva una parte rilevante, soprattutto. Crebbe quindi la consapevolezza di una natura umana da sempre tecnica, il cui rapporto con strumenti del genere sarebbe però mutevole nel tempo. Risultato, una simbiosi sempre più intensa fra le categorie “uomo” e “alterità non umane” (alter = diverso), tanto da confondersi l’una nell’altra. Basti notare la presenza della prima nel concetto di antropocene, l’era geologica contrassegnata dall’intervento umano. Ma qui si va a parlare di un altro mio esame già dato…

Tutto ciò senza dimenticare la parte cruciale a livello emotivo, valoriale, relazionale del rapporto, ovvero gli esseri umani. Infatti, la crisi pedagogica stessa deriva anche dal voler comprendere meglio l’ambiente pedagogico per far fronte al disagio educativo dovuto alle sue trasformazioni. Ad esempio ci si chiede come conciliare i tempi lunghi dell’istruzione con la frenesia dello stile di vita attuale, e il ritmo con il quale la vecchia conoscenza diventa obsoleta. Il fine è mantenere sempre l’intenzionalità pedagogica pur continuando a sviluppare esperienze educative significative.

I cambiamenti finora descritti sono dovuti, secondo l’autore, al passaggio in atto dal paradigma umanista e antropocentrico ad uno nuovo. Prima di conoscere le new entries, vediamo però quali idee stiamo salutando.

L’antropocentrismo, dal punto di vista ontologico (relativo alla filosofia dell’essere) esprime l’ideale di superiorità umana sul non umano, viste come parti separate della realtà. Ciò nega la permeabilità presente fra le due ed enfatizza eccessivamente le loro differenze. A livello epistemologico, ovvero legato allo studio del metodo di indagine, le idee antropocentriche sostiene che quella umana sia l’unica vera forma di conoscenza, e la migliore, ponendosi come misura di ogni cosa. Non tenendo conto dell’importanza del non-umano nella misurazione della realtà… tradotto: il famoso cannocchiale di Galileo dove lo mettiamo?

Eticamente parlando, la situazione non migliora. Secondo l’antropocentrismo solo l’uomo avrebbe valore intrinseco, mentre il non umano puramente strumentale. Un argomento a favore pone la presenza delle  caratteristiche necessarie per possedere il titolo di “persona” esclusivamente nell’uomo.  La coscienza, la competenza simbolica e linguistica, il pensiero razionale sono alcune. Dove sta il problema con un ragionamento simile? Principalmente che tali caratteristiche non appartengono solo all’uomo, e anzi alcuni umani possono averne meno di altri.

L’antropocentrismo prevede anche un dualismo fra cultura e natura in grado di giustificare la violenza dell’uomo sulla Terra, archetipo del dominio da parte della cultura, in quanto l’uomo attraverso essa si emanciperebbe dal non-umano. Infatti l’uomo sarebbe biologicamente incompleto e carente, non essendosi specializzato a compiere un determinata funzione. Tuttavia, se così fosse, l’uomo non potrebbe sopravvivere fino a riprodursi, e in realtà l’uomo presenta un’estrema complessità anatomico-funzionale. Quindi è proprio a causa della sua complessità, e non nonostante il suo essere una specie generalista, che la dimensione culturale si manifesta.

La tecnica, intesa come capacità umana di trasformare l’ambiente, diventerebbe così un mezzo a totale disposizione umana, con le conseguenti azione deleterie subite dalla natura.

Guarda caso, nel rapporto con gli animali l’antropocentrismo porta allo specismo, in quanto possono essere sfruttati e uccisi per mancanza di umanità. Il corpo degli animali può essere consumato per piacere, condizione assimilabile a quella delle donne in un sistema patriarcale. L’atteggiamento antropocentrico, da sempre maschilista e xenofobo, diventa quindi anche un carnofallologocentrismo, nelle parole del filosofo postmodernista Derrida, rievocando l’immagine del maschio adulto viriloide mangiatore di carne. Probabilmente una delle parole più lunghe e complesse che abbia mai sentito… Comunque, oggi la scienza sottolinea la presenza di molti comportamenti affini agli umani negli animali.

Come se non fosse abbastanza, l’immagine dell’umanità carnofallologocentrica è l’ideale “uomo maschio bianco etero europeo sano”, considerato più propriamente umano rispetto ad altre categorie.

Vorrei precisare la differenza con l’umanismo, il quale indica le filosofie basate sulla dignità dell’uomo; concetto da sostenere senza per forza cadere nelle conclusioni antropocentriche.

Le idee antropocentriche entrarono fortunatamente in crisi a partire dalla fine dell’800, e continuarono a creparsi via via che gli orrori del ‘900 dimostravano la loro fallacia. Sorsero movimenti quali il femminismo, il post-colonialismo, l’animalismo, l’ambientalismo, per combatterle.

Forse il declino sarebbe stato più veloce, se non fosse per le prassi quotidiane messe in atto da ognuno di noi, dovuti all’ambiente nel quale siamo immersi. Parlo di comportamenti in grado di perpetrare ideali qua criticati, ma da cui io non sono esente proprio per nulla. Tuttavia, riconoscere l’ipocrisia dei nostri tempi, in cui spesso predichiamo bene e poi razzoliamo male, penso sia necessario per un cambiamento significativo.

Complice di ciò è la pedagogia stessa poiché, qualsiasi periodo storico consideriamo, ha sempre avuto un’impronta educativa antropocentrica. Dalla paideia greca (vivere secondo una natura propriamente umana), fino alla bildung ottocentesca (combinare cultura e personalità per realizzare lo sviluppo spirituale). Sicuramente il fine era nobile: educare, ma i/le pedagogist* del passato avrebbero dovuto specificare “l’uomo”. Tutte le correnti pedagogiche del passato pensavano di “umanizzare” le persone educandole, separandolo dalle altre creature, completamente estranee ad un processo simile. La principale conseguenza è una società ancora basata sul vecchio paradigma, radicata all’interno di metodi educativi arretrati.

Le risposte nate per fronteggiare la crisi sono principalmente tre. Abbiamo l’antropocentrismo pedagocico forte, che ripropone tali idee al fine di umanizzare gli educandi ed evitare una presunta spersonalizzazione della pedagogia. Poi, la sua versione debole, avente come obiettivo l’autonomizzazione degli individui e la l’integrazione in un mondo pluralista. Infine, il post-antropocentrismo pedagogico, che si decentra dell’umano valorizzando il “non umano”. Ultimo ma non ultimo, dal momento che è l’unico a raccogliere le idee del nuovo paradigma.

Arrivati fin qua un altro appunto è doveroso. Il postumanismo può essere facilmente confuso con un concetto simile, il transumanesimo. La principale differenza è che il secondo, muovendosi in un orizzonte ancora antropocentrico, esalta la tecnologia in maniera utopistica, vedendola in grado di rendere gli umani perfetti. Alterare la genetica e implementare parti meccaninche nel corpo sarebbero due metodi. Con il risultato di rendere la pedagogia obsoleta, perché umani perfetti non devono essere educati. Un orizzonte ancora lontano ma visto sucuramente di buon occhio da ideologie quali il capitalismo e la tecnocrazia.

L’antropocentrismo del transumanesimo deriva dalla concezione secondo cui la natura avrebbe valore unicamente in virtù delle caratteristiche che la accomunano all’uomo. Non considera gli altri valori di cui la natura è portatrice, come la bellezza, la spiritualità, le risorse essenziali per il nostro sostentamento, la conoscenza, i benefici psicologici dovuti alla sua contemplazione, eccetera. Anzi, l’umanità sarebbe di gra lunga più carente di questi beni se non fosse per l’ambiente naturale.

In verità i due movimenti non risultano così dissimili. Per entrambi l’evoluzione umana non è ancora finita, e può continuare grazie anche alla fusione con la tecnologia. Tuttavia, il postumanismo crede in una realizzazione graduale e ponderata di un futuro tanto high-tech, molto più protopica che utopica.

Chiusa la lunga parentesi, veniamo alle caratteristiche della pedagogia post-umanista. Essenziale è educare alla complessità, valorizzando le pluralità e rispettando l’agentività altrui, e al cambiamento, ossia pensare al futuro come soggettività + alterità in divenire. La disciplina deve saper anche contaminarsi con altre scienze spesso trascurate, e intraprendere percorsi di ricerca innovativi incentrati sulla relazione fra “umano” e “non umano” (gli animal studies, per citarne alcuni).

L’articolo e i relativi svarioni continuano nella parte 2.

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